A: Antonio Calonego Da: Stefano Garroni domenica 17 novembre 2002, ore 10,30 Bada a questa pagina della Introduzione
alla Fenomenologia di Hegel: Oder ist das Erkennen nicht Werkzeug unserer Tätigkeit,
sondern gewissermaßen ein passives Medium, durch welches hindurch das Licht
der Wahrheit an uns gelangt, so erhalten wir auch so sie nicht, wie sie an
sich, sondern wie sie durch und in diesem Medium ist. [O il conoscere non attrezzo di una nostra
attività, ma una sorta di medio passivo, attraverso cui la luce della verità
giunge fino a noi, in tal caso non abbiamo (lett., non conserviamo,
non possediamo] la verità così com’essa è in sé, ma sì come è attraverso
questo medio]. Trovo questa pagina
fondamentale, perché in definitiva dice: conoscere significa fare così e
così; fare così e così è una delle nostre pratiche; non ha dunque senso
chiedersi, scetticamente, se possiamo o no conoscere; né ha senso
kantianamente pretendere di definire il conoscere (cioè il Werkzeug di quella
certa nostra attività) prima della conoscenza stessa (dunque, prima
del suo uso), quasi che si trattasse di uno strumento, la cui struttura,
funzionamento (e limiti) fossero definibili in modo sicuro e preciso, prima
di cominciare ad usarlo. Sbaglio se dico che
questo testo mette in discussione molti pregiudizi su Hegel? In primo luogo
quello circa il suo idealismo? Ricordi la cosetta che ho scritto a proposito
di riconoscere, Schlick e Hegel (leggi l’articolo)? ----------- A:
Stefano Garroni Da: Antonio Calonego domenica
17 novembre 2002, ore 18,30 Devo però chiederti
di chiarirmi alcuni dubbi:
ragionare sui limiti della dialettica non è già porre un problema epistemologico che riguarda la conoscenza, il suo ambito di applicazione, prima della sua effettiva applicazione ? Se è l'uso ciò che decide il valore conoscitivo di un discorso, allora le cose sono due: o questo discorso si rapporta a standard già in uso - e quindi può essere messo a confronto con questi standard - o si rapporta alla nuova idea di razionalità che esso stesso introduce nella cultura. In quest'ultimo caso, il valore conoscitivo si decide dopo. Ma allora che fine farebbe quel valore/verità delle teorie che tu giustamente rivendichi, nel tuo articolo su Gramsci (leggi l’articolo), contro certe posizioni storicistiche ? "Fare così e così è una delle nostre pratiche". Ma le differenze tra le pratiche di ciò che noi comunemente chiamiamo scienza e quelle della filosofia mi sembrano maggiori delle loro somiglianze. -------- A: Antonio Calonego Da: Stefano Garroni domenica 17 novembre 2002, ore 21,30 Io credo che la pagina di Hegel
debba esser letta contro due problematiche: 1) <può veracemante
l'uomo conoscere?> La domanda non ha senso, perché fare così e così
è ciò, che noi diciamo conoscere e di questo fare posso, nella storia,
indicare innumeri esempi; 2) <varie son le possibili forme della
conoscenza, le quali sono a priori così e così descrivibili in modo
determinato>. Anche questo non ha senso, perché conoscere è, appunto, una
certa pratica (una certa gamma di pratiche) e, dunque, è sempre conoscer qualcosa,
dunque, non posso in abstracto scegliere questa o quella forma di
conoscenza, ma sì sceglierla nel concreto di un compito conoscitivo
determinato. Significa questo che non è possibile se non descrivere pratiche conoscitive? Perché? L'importante è che si comprenda che la forma del conoscere trova il suo finish in un determinato oggetto a cui si rivolge, e che quel determinato oggetto trova a sua volta la propria determinazione entro quella certa forma. Naturalmente, va sempre ricordato che la filosofia vien dopo che una certa pratica si è svolta. Ancora: successo al posto del valore/verità? Perché? Il problema è comprendere che <verità> è qualcosa che gli uomini stessi definiscono all'interno di parametri teorici, che variano (nella misura e nella forma, in cui effettivamente variano) storicamente. -------- A:
Stefano Garroni Da: Antonio Calonego mercoledì
20 novembre 2002 Sui punti 1) e 2): sottoscrivo.
Sul resto, quello che scrivi non risolve i miei dubbi. << Il problema è comprendere che <verità> è qualcosa che gli uomini stessi definiscono all'interno di parametri teorici, che variano (nella misura e nella forma, in cui effettivamente variano) storicamente>>. E sia. Rimane il fatto che la costruzione di una teoria (anche della teoria che studia la variazione dei parametri teorici) consiste di una successione di atti compiuti nel contesto di un sapere dato, nel quale valgono intanto certi parametri teorici e di rigore. La portata innovativa della teoria si misura, dopo, su questi parametri, che esistono e sono descrivibili prima. Ora, secondo me, il punto è il seguente: se la teoria di cui stiamo parlando appartiene ad una tipologia filosofica, questa dialettica prima/dopo si presenta in una forma vaga e sostanzialmente indeterminata, perché sostanzialmente indeterminati sono i parametri teorici e di rigore del discorso filosofico, che per lo più ogni singolo autore ridefinisce a suo uso e consumo. Da tutto questo, sia chiaro, io non ne ricavo un atteggiamento si svalutazione o di sottovalutazione dell'impresa filosofica. Voglio solo dire che quello che scrivi non è sufficiente a sostenere la possibilità di una "scienza speculativa" - che l'uso della parola "scienza", qui, è fuorviante. ------------ A: Antonio Calonego Da:
Stefano Garroni giovedì
21 novembre 2002 No, non voglio sostenere che la
scienza filosofica sia una cosa buona e possibile; voglio solo mostrare che
quello che Hegel intende per scienza filosofica non merita di esser respinto
con fastidio, come si fa con tutto ciò che si presenta come metafisica o
idealismo, nel vago senso in cui comunemente questi termini vengono assunti.
A mio modo di vedere, la scienza filosofica hegeliana è il tentativo di
rendere i presupposti della scienza qualcosa non di dato ma di dedotto, e di
connetterli con tutto lo sviluppo storico dell'uomo. Non so se questo si
possa fare (o si possa far sempre) e mi chiedo perfino se non sia vero che
Marx riprende il progetto, ma nel senso della relazione
struttura/sovrastruttura (che sarebbe tuttavia qualcosa di fortemente
diverso, rispetto al discorso di Hegel e pericolosamente volto verso una
concezione strumentale della cultura). Dunque, l'importante è che siamo
d'accodo sui punti 1) e 2).
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