Marx e il problema dell’astrazione scientifica

Antonio Calonego

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Nelle sue Theories of value, 1973, quando spiega le caratteristiche più significative delle teorie di Marx, M. Dobb ne sottolinea il processo di costruzione come parte di un più ampio dibattito culturale e come impresa intellettuale di una mente ancora impegnata nella elaborazione  e nella ricerca delle categorie del sistema. Vi sono due diversi approcci interpretativi cui possiamo far ricorso per illustrare e render conto di un sistema: possiamo concentrarci sulle relazioni che intercorrono tra i concetti che lo costituiscono o entrare nella sua fucina e seguire passo passo il lavoro che a mano a mano lo produce. Nel primo caso, diamo come presupposti l’ambiente cui quel pensiero appartiene, i suoi non lineari percorsi riflessivi, l’intreccio empiricamente determinato delle esistenze e delle biografie intellettuali; nel secondo caso è invece proprio questo intreccio ad attirare la nostra attenzione e a diventare il terreno delle nostre indagini. Dal momento che Dobb sembra muoversi nella seconda direzione, deve esserci una qualche importante ragione che lo spinge su questa via piuttosto che sull’altra, una ragione che si rivela nel discorso che egli conduce e nei risultati cui mira e che ottiene: gettare luce sulle mosse iniziali da cui scaturisce il pensiero di Marx e portarlo fuori da quella specie di recinto protettivo all’interno del quale una certa tradizione marxista ha spesso finito per rinchiuderlo, condannandolo alla sterilità dell’isolamento culturale. Lo status logico ed epistemologico delle teorie di Marx, nell’opera di Dobb, appare sostanzialmente non diverso da quello degli altri autori, di cui il libro fornisce un’esposizione critica. Se mettere in piedi una teoria significa porre in relazione ciò che alla coscienza comune sembrano solo cose disperse in uno spazio privo di legami, allora la mossa fondamentale deve consistere nel fissare le coordinate concettuali per mezzo delle quali quelle relazioni possano essere individuate, messe in evidenza e confrontate.. Abbiamo bisogno di coordinate concettuali per poter comprendere le somiglianze e le differenze di ciò che costituisce l’oggetto del nostro esame, che altrimenti non saremmo neanche in grado di notare. Consideriamo  - per far ricorso ad un breve esempio che potrebbe aiutarci a chiarire il punto che stiamo cercando di illustrare – queste due ben diverse situazioni: (a) Abramo era figlio di Terah e Terah era discendente di Sem (Genesis, 11, 27) ; (b) 11 è l’immediato successore di 10 e 10 è maggiore di 3. Sono scelte da contesti che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro e appartengono a due distinte sfere della cultura. Nondimeno, un logico osserverebbe che la coppia “successore immediato di” e “figlio di”, così come la coppia “maggiore di” e “discendente di”, identificano relazioni che hanno le stesse proprietà formali; che quando concludo (a)’ dunque, Abramo era discendente di Sem, (b)’ dunque, 11 è maggiore di 3, genero inferenze che altro non sono se non due differenti esemplificazioni della stessa struttura formale. Naturalmente, il logico può sostenere una cosa del genere in quanto fa suo un punto di vista formale, il cui elemento distintivo consiste nella scelta di fondo che lo porta a guardare gli oggetti di cui si interessa come forme piuttosto che come contenuti. Ma la morale della storia è che ci vuole un tertium per confrontare le cose. Dobbiamo fare una scelta di fondo e selezionare un qualche aspetto in base al quale tutti gli oggetti del campo che stiamo indagando possano essere considerati come analoghi.

Marx concentra la propria riflessione sul problema dell’appropriazione nella storia; ed è da questo punto di vista che istituisce un’analogia tra passato e presente, tra le forme economiche e sociali della società del XIX secolo e le altre precedenti forme della società di classe. Appropriazione deve essere inteso qui nel senso di sfruttamento, vale a dire acquisizione di una quota della produzione da parte di chi non svolge alcun ruolo produttivo. La nozione di sfruttamento, dice Dobb, è da prendersi come una descrizione fattuale dei rapporti economico-sociali, allo stesso modo in cui, per esempio, Marc Bloch caratterizza il feudalesimo come un sistema nel quale i signori “vivono sul lavoro degli altri uomini. E’ sulla base di questa nozione, data l’analogia di cui sopra, che Marx può guardare alla storia come ad una successione di modi di produzione, i cui diversi periodi trovano nell’ appropriazione / sfruttamento il loro tratto distintivo, e quindi assegnare alla sua ricerca il compito di investigare i mezzi politici, militari, giuridici ed economici mediante i quali l’appropriazione si verifica. Ci sono situazioni in cui l’appropriazione è imposta per legge o con la forza delle armi e situazioni in cui l’appropriazione si impone di fatto, come avviene nella specifica forma dello sfruttamento capitalistico. Nella teoria economica che Marx sta elaborando, l’esistenza dello sfruttamento è data per scontata: fornire prove su questo punto non è ciò che la teoria si propone. Ciò che la teoria si propone, dice Dobb, è piuttosto la trattazione di una questione teorica, la questione teorica che sorge quando l’idea che concerne la presenza dello sfruttamento si incontra con le analisi che provengono dalla letteratura economica: l’esistenza dello sfruttamento nella società capitalistica è in contraddizione con la “teoria del valore” ? Come è possibile che si verifichi lo sfruttamento nel regno della concorrenza e della “mano invisibile”, dove i beni sono scambiati al loro “valore naturale” ?

Gli economisti che Marx critica, concentrano la loro attenzione sulla sfera della circolazione, dove, essi sostengono, ogni scambio è regolato da libere relazioni contrattuali ed è la stessa concorrenza a garantire l’equivalenza dei soggetti implicati nelle transazioni. Secondo la “legge del valore” le merci sono scambiate al loro “valore” (in proporzione al lavoro). Ma lo sfruttamento implica l’idea che vi debba essere, in qualche luogo della vita economica della società, qualcosa di non equivalente. Come è noto, Marx assume la “legge del valore”. Dunque, se lo sfruttamento esiste non può trovarsi nella sfera della circolazione. Avendo fatta propria questa impostazione, Marx è quindi condotto a compiere il passo successivo: egli analizza lo sfruttamento indagando ciò che avviene nel corso del processo di produzione e postula l’esistenza di un determinato saggio di sfruttamento o del plusvalore, precedente alla formazione dei valori di scambio, o prezzi, e da questa non derivato. Il problema diviene allora quello di riuscire a definire il saggio di sfruttamento senza far riferimento al processo dello scambio. Se avesse seguito Ricardo, Marx avrebbe potuto risolvere il problema facendo ricorso ad un unica merce, il grano, presa come rapporto, non dipendente dalle variazioni dei prezzi. Ma per gli scopi di Marx, osserva Dobb, molto più funzionale del ricorso ad una merce singola era l’espressione del saggio del plusvalore in termini di lavoro, ossia come rapporto tra il lavoro effettivamente erogato, che corrisponde al prodotto, e il lavoro che corrisponde al salario anticipato. Come fa ogni relazione, anche questo rapporto “genera” i suoi elementi e introduce così una differenza nel significato della parola “lavoro” che ora si distingue in “lavoro”, inteso come quantità che può essere venduta e comprata sul mercato, e “lavoro”, inteso come energia lavorativa effettivamente erogata. Una volta definito il saggio di sfruttamento, è rivelata la fonte del plusvalore e il problema di conciliare sfruttamento e “legge del valore” può ricevere una risposta.  La soluzione, come è noto, consiste in quella differenza tra forza lavoro  e lavoro, che occupa un posto centrale nella teoria di Marx. Il capitalista anticipa i salari calcolati sul valore di scambio della forza lavoro. A sua volta, questo valore di scambio è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per “produrre” l’operaio, ossia dal lavoro necessario per il suo sostentamento e la sua istruzione. In cambio, il capitalista riceve il lavoro dell’operaio (il suo valore d’uso ). Che il valore del lavoro sia maggiore del valore pagato per i servizi resi dal lavoratore, è il principio cruciale del sistema capitalistico, che non potrebbe riprodurre se stesso se non mantenesse questa differenza. Ma per mantenere la differenza, il sistema ha bisogno dell’esistenza di un terreno storico e istituzionale. Ha cioè bisogno di un proletariato, che non possiede né terra né proprietà, interamente dipendente per la sua sopravvivenza dalla vendita della propria forza lavoro in cambio di un salario. Le nozioni di saggio di sfruttamento, forza lavoro e lavoro, plusvalore costituiscono il sistema di riferimento concettuale della teoria di Marx.  .

Sorge ora un nuovo problema e cioè il problema che deriva dal fatto che Marx ricorre alla coppia forma fenomenica / essenza per sottolineare il contrasto tra la visione delle cose che risulta dalla sua teoria intorno alla società capitalistica e quella degli economisti. Dato che gli economisti assumono la sfera della circolazione come loro piattaforma di lavoro, essi finiscono per rimanere impantanati su ciò che altro non è se non la forma fenomenica di un’essenza che rimarrebbe al di là della loro comprensione. Dopo più di un secolo dalla morte di Marx., occorre riconoscere che questa metafora dell’ “andare oltre la forma fenomenica” è stata molto potente, ma anche drammaticamente fuorviante.  Essa ha indotto alcuni a credere che vi fosse una specie di debolezza logica nel lavoro degli economisti, le cui procedure razionali sarebbero state insufficienti a render conto della complessità del loro oggetto di studio. Al contrario, la superiorità della teoria di Marx, deriverebbe da un qualche speciale tipo di astrazione, che gli avrebbe consentito di penetrare la superficie  dell’esperienza e raggiungere le profondità, dove si celerebbe la vera essenza. Come tentativo di fornire una spiegazione della differenza che distingue Marx dagli economisti, questo modo di raccontare le cose è forse solo una favola scritta ad uso dei “fedeli”. Questo però non esclude che in essa vi sia un grano di verità.   E’ vero, infatti, che quando si prendono in considerazione i motivi e gli obiettivi del lavoro di Marx, il contrasto appare molto profondo e importante. Marx si proponeva di elaborare una visione d’assieme dello sviluppo dell’intero sistema della società umana. La sua riflessione economica era solo una parte, benché una parte fondamentale, delle sue concezioni onnicomprensive, che si preoccupano dell’infelicità dell’uomo nella società di massa non meno che del modo in cui questo produce beni e servizi. Egli però pensava anche che qualsiasi indagine che riguardasse le idee e la cultura di una certa epoca storica dovesse essere sostenuta da un’analisi scientifica delle forme determinate della sua esistenza empirica. Come abbiamo visto, nelle sue Theories, Dobb si sofferma particolarmente su quest’ultimo aspetto del lavoro di Marx: la concezione che dell’ astrazione scientifica questi aveva non è sostanzialmente diversa da quella degli altri autori delle Theories.

 

 

Bibliografia.

 

M. Dobb, Theories of value and distribution since Adam Smith – Ideology and economic theory, Cambridge 1973.

K. Marx, Teorie sul plusvalore, Roma 1973.

S. Koerner, Sistemi di riferimento categoriali, Feltrinelli.

F. Gil, Strategie conoscitive nella ricerca scientifica, in Scienza e Tecnica ’76, Milano.

L. Laudan, I modelli nella storia della scienza,  in Scienza e Tecnica ’76, Milano.

L. Geymonat, Storia della scienza e filosofia, in Scienza e Tecnica ’76, Milano.

 

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