di Stefano Garroni
I Fisiocratici
sono quegli studiosi di cose sociali –o quegli economisti[1]-,
per i quali la natura è dotata di una
potenza o capacità creativa (fisiocrazia),
che viene stimolata, ‘occasionata’, dall’azione dell’uomo.[2]
Questa
concezione della natura -non come <morta cosa> o informe estensione, ma
sì come potere, energia, creatività-, nel caso dei Fisiocratici (come in
generale nell’ambiente culturale dal Cinque al Settecento), non comporta vitalismo irrazionalistico, sì piuttosto
la convinzione che i processi naturali
siano espressivi di una razionalità obiettiva, la quale di fatto è una
sorta di traduzione laica della cristiana provvidenza divina (ma che,
naturalmente, ha anche più lontane e meno ‘esaltate’ origini)[3].
Possiamo comprendere, dunque, perché proprio i Fisiocratici abbiano affrontato
il problema (in realtà, son stati gli ultimi a farlo) di quale concreta attività umana in particolare sia capace di assicurare la ricchezza
di una nazione; e che l’abbiano risolto con l’identificarla
–quell’attività- nel lavoro agricolo[4],
vale a dire nella fatica, che più direttamente mette l’uomo a contatto con la natura, appunto.
Né ovviamente è
casuale che il personaggio da tutti riconosciuto come il più significativo tra
i Fisiocratici –intendo, com’è chiaro, François Quesnay (1694 – 1774)- sia
autore non solo di scritti economici, ma anche di pagine, dichiaratamente
interne alla tradizione giusnaturalistica: nel suo numero di settembre del
1765, infatti, il “Journal d’agricolture” pubblicava l’articolo, appunto di
Quesnay, intitolato Le Droit Naturel. [5]
In generale (vaguement), osserva Quesnay iniziando il
suo scritto, ogni uomo ha “diritto naturale (droit naturel)” a tutto
ciò, che serve alla sua jouissance. [6]
Dunque, nella
prospettiva del nostro autore, vale un nesso fondamentale (essenziale, si
potrebbe dire) fra droit naturel e jouissance: - vale la pena sottolinearlo questo nesso, dacché serve, per un
lato, a far risaltare il carattere nettamente fisico, immediato, ‘patologico’
della semantica di <droit naturel>;
per l’altro, poiché ci dà un’indicazione significativa, se vogliamo comprendere
quale sia il senso che in generale termini come ‘natura’, ‘naturale,’ acquistano nell’ottica fisiocratica.
Che la catena droit naturel/jouissance, porti con sé
implicitamente anche altre connessioni semantiche –più specificate socialmente
e storicamente- ce lo prova J. J.
Rousseau, il quale –nell’articolo Économie politique (1755)-
scrive: “bisogna ... ricordare che il fondamento del patto sociale è la
proprietà e che la sua prima condizione è che ognuno sia mantenuto nel pacifico
godimento (jouissance) di ciò che gli
appartiene.”; “infatti, essendo tutti i diritti civili fondati su quello di
proprietà, non appena quest’ultimo è abolito nessun altro può sussistere. La
giustizia non sarà che una chimera e il governo una tirannide e, non avendo
l’autorità pubblica alcun fondamento legittimo, nessuno sarà tenuto a
riconoscerla, se non in quanto vi sia
costretto con la forza.”.[7]
Le due pagine
–di Quesnay e di Rousseau- sono certamente accostabili; addirittura son
complementari –nel senso che entrambe si inscrivono all’interno d’ uno stesso
pensiero.
Il diritto è naturale, non solo perché non è fondato
dalla società, (sì piuttosto è la società che si basa su di esso); ma, ancora,
perché naturale ne è la materia, l’oggetto a cui il diritto rivolge la sua
attenzione ed, ancora, naturale è la richiesta (di jouissance), che esso punta a soddisfare.
In questo
contesto, la proprietà privata è anch’essa naturale,
perché (a) obiettivazione del lavoro
svolto, (b) segno esteriore che la personalità è presente,
(c) garanzia oggettiva che il
soggetto è ancorato nel mondo.
Con la serie droit naturel/jouissance/propriété privée,
va presentandosi un’ambigua dimensione, in cui natura (nel senso di sentimento, parzialità, pathos) e ragione (nel senso di una misura,
universalmente equilibrante) si rovesciano l’una nell’altra, sono l’una se
stessa e il proprio altro. Dunque, una concezione della natura, tale per cui
essa -nella propria immediatezza- è, paradossalmente, mediazione,
regola, universalità.
Questo paradosso corrisponde ad una posizione largamente
diffusa tra Cinque e Settecento, la quale
si oppone ad un altro modo di tematizzare il <naturale>. Per
chiarire questo punto, deviamo parzialmente dal terreno della nostra analisi,
però, in questo modo realmente approfondendola.
J.
Locke (1632-1704) –scrive Sabine- “ha mischiato tra loro due punti di vista
incompatibili: secondo il primo punto di vista, tanto gli individui quanto le
istituzioni compiono un'opera socialmente utile, regolata dal governo per il
bene di tutti e nel quadro della legge che fa del gruppo una comunità: questo
(è un) punto di vista, che Locke aveva ricevuto dalla tradizione medievale
giuntagli attraverso Hooker (1553-1600)[8]
… Il secondo punto di vista, elaborato da Hobbes (1588-1679), concepisce invece
la società come un insieme di persone che agiscono per moventi egoistici, che
guardano alla legge ed al governo per
la loro sicurezza di fronte a compagni egualmente egoisti, e che mirano
alla maggiore quantità di bene privato compatibile col mantenimento della
pace.”[9]
Ancora,
sottolinea lo studioso moderno W. Euchner, J. Locke "non ha mai
consapevolmente posto in dubbio l'esistenza di norme create da dio, naturali,
conoscibili dagli uomini”[10];
e da parte sua il francese J. Polin scrive che: “ la religion de Locke est
d'abord la foi dans un ordre morale e physique immenent au monde. C'est pourqoi sa pensée se situe si aisèment en
continuitè avec la pensée antique, avec le cosmos d'Aristote, ou avec le cosmos
des Stoiciens. C'est l'ordre qui est supreme, et dans les oeuvres des hommes,
c'est aussi l'ordre qui doit l'etre, et par la loi.”[11]
Le
due linee, che Sabine indicava come l’una di Locke e l’altra di Hobbes[12],
si differenziano alla radice per il diverso rapporto, che ognuna stabilisce fra
ragione e dignità umana.
La
linea à la Locke identifica sostanzialmente dignità umana e
partecipazione alla ragione; conseguentemente, tende a risolvere nella vita
sociale la partita della moralità e tende a considerare la socialità come
esaltazione ed arricchimento della dignità dell’uomo.
La linea à la Hobbes, invece,
<spiritualizza> la dignità umana, nel senso che ne fa una prospettiva di
valore, non favorita ma sì minacciata dalla socialità e da essa essenzialmente
distinta. Come sottolineava Sabine, l’uomo di Hobbes è costretto alla vita sociale,
questa è il minor male a cui si piega, ma sempre con lo scopo di garantirsi
sicurezza e (per quanto possibile) indipendenza
dal vincolo sociale. [13]
Appendice 1.
“Il
termine «economia» deriva da Aristotele.
Essa significa scienza riguardante le leggi dell'economia domestica …
L'espressione <economia politica> entrò in uso all'ínizio del XVII
secolo; fu introdotta dal montchrétien,
che nel 1615 pubblicò un'opera intitolata
Traité de l'économie politique.
L'aggettivo <politica> doveva significare che si trattava delle leggi dell'economia
pubblica; Montchrétien si occupava infatti nella sua opera, essenzialmente, di
questioni di finanza pubblica. Col tempo il termine economia politica si generalizzò, finendo per significare lo
studio dei problemi della attività economica della società... E’ solo 140 dopo
il lavoro di Montchrétien, che compare un altro titolo economia politica: si tratta
dell’articolo di J.J. Rousseau sull’Enciclopedia
illuministica (Kramm, 5641: 21b).
Consideriamo
le espressioni economia politica e economia sociale come sinonimi.
Talvolta
l' economia politica viene definita anche come la scienza dell’economia sociale... In Francia, in base alla tradizione iniziata nel 16I5
dal Montchrétien, il termine economia politica fu ed è ancor oggi
universalmente adottato[14]...Il
termine <economia sociale> era abbastanza
diffusamente impiegato in Polonia alla
fine del XIX e all'inizio del XX secolo. Questo termine aveva anche sostenitori in altri paesi. In Italia, Luigi Cossa intitolò il suo saggio pubblicato nel
1891 Economia sociale. ... In Inghilterra entrò nell'uso -certamente
sotto l'influsso della terminologia francese- il termine economia politica. Fu
impiegato per la prima volta da James Steuart, che pubblicò nel 1767 un'opera intitolata inquiry into the
Principles of Political Economy. Secondo McCulloch, l’economia
politica è la scienza di quelle leggi, che regolano la produzione,
l’accumulazione, la distribuzione e il consumo dei beni necessari, utili e
piacevoli. (Kremm, 5641: 23).
Dalla
tradizione anglo-francese deriva appunto il termine economia politica, accolto
da Marx ed Engels per la scienza
che studia le leggi sociali di produzione e distribuzione dei beni; per cui
Marx defini talvolta la sua
opera corne critica dell'economia
politica, cioè critica delle dottrine dell'economia politica classica. Da
allora, il termine economia politica è impiegato universalmente nella
letteratura marxista. Fa eccezione Rosa Luxemburg, la quale nelle sue
lezioni di economia politica parla di scienza dell' economia nazionale (Nationalökonomie). E’ quest'ultimo il
termine che, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, si acquistò diritto
di cittadinanza nella scienza ufficiale tedesca (Nationalökonomie, Volkswirtschaltslehre). Esso esprime la valutazione specifica del
ruolo della nazione, come fattore economico, da parte della cosiddetta scuola
storica, la quale rappresentava l'indirizzo predominante nella scienza
ufficiale tedesca. E’ da notare che
questo termine fu impiegato per la prima volta dal monaco veneziano Gian
Maria Ortes nell'opera uscita
nel 1774 col titolo Della economia nazionale... Da quando Alfried Marshall intitolò la sua opera, apparsa nel
1890, Principles of economics, il termine <economia> fu
accolto in sempre più larga misura nella scienza accademica dei paesi
anglosassoni. In questo ambiente cadde in disuso il termine economia politica impiegato da William Stanley Jevons (iI suo trattato apparso nel 1871
porta il titolo The Theory of Polítical
Economy)...” (Lange, 1414: 25ss).
[1]- Il
fatto è –come vedremo- che il termine <economia> è stato usato storicamente in accezioni,
significativamente diverse. La conseguenza è che il senso, in cui i
Fisiocratici erano economisti, non è lo
stesso, secondo cui oggi diciamo, per es., che X è un economista o che P è una
disciplina economica. Cf. Appendice 1.
[2] -
Naturalmente è di grande interesse –a questo punto- ricordare la critica, che
alla concezione della causalità, muove nel Settecento lo scozzese D. Hume,
appunto centrata sulla denuncia dell’oscurità semantica di termini come potere, forza, energia creativa, quando
il problema sia render chiari processi reali, obiettivi.
[3] -
Mi riferisco alla nota situazione: quando intendo ricostruire la storia di un
termine, di un tema, di un problema, certamente posso riuscire con successo nel
mio scopo e tracciare, dunque, effettivamente ‘la storia’ di quel termine, tema
o problema. Senonchè (cosa che, certo, non meraviglierebbe Sesto Empirico),
sicuramente è dimostrabile che anche un’altra e un’altra ancora potrebbe esser
proposta come storia di quel termine,
tema o problema. Qui ci imbattiamo nel tema del rapporto fra storia umana e
possibile: ovviamente non lo affrontiamo; limitiamoci ad una osservazione.
L’unico senso che determinare,
determinazione e simili possono
avere in sede di scienze morali (o almeno il più frequente) è, probabilmente,
questo: poste le condizioni C, C’, C” …, può determinarsi la situazione S,
dalla quale –mancando impedimenti sufficientemente forti- è altamente probabile
che derivi la necessità N.
[4]-
Come vedremo, fa problema determinare cosa intendessero esattamente i Fisiocratici,
quando dicevano <lavoro agricolo>.
[5] -
La nozione di legge di natura gioca
un importante ruolo anche per l’estetica settecentesca (cf. E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Torino
1991.
[6] - Jouissance è termine, che sta a dire
<piacere, godimento>, per lo più in senso fisico ed economico (ad es., godimento di una rendita), pur se la
lingua francese ne ammette l’uso anche per significare <piacere
spirituale>.
[7] - E’
interessante ricordare come solo qualche decennio dopo, nel 1819, il nesso
jouissance/proprietà privata risultasse, oramai, ben più problematico. Nei sui Nouveaux principles d’économie politique ,
Sismondi (1773–1842) sottolinea il
nesso tra capitalismo, immiserimento morale, polarizzazione di ricchezza e
miseria. In definitiva, Sismondi sottolineava come lo sviluppo di questo
sistema produttivo, se accresce il godimento (jouissance), lo fa solo relativamente ai beni materiali ed,
inoltre, accrescendo, da un lato, la
ricchezza, dall’altro, la miseria. Conseguenze di tutto ciò, sottolinea ancora
Sismondi, crisi e disoccupazione.
[8] -
"Rivelatrice è in Hooker l'assenza di una dottrina del contratto sociale:
alla base della sua concezione politica troviamo piuttosto l'idea <della
comunità come vivente organismo e prodotto storico>”. (L. Ricci Garotti, “J.
Locke tra politica e filosofia”, in SOCIETA’, n. 2-1961:183).
[9] -
G. Bedeschi, “Società naturale e
società civile nella filosofia politica di Locke”, in J. Locke, Saggi sulla legge naturale, Bari 1973:
XXV-XXVI.
[10] -
cf. J. Locke, Saggi sulla legge naturale,
op. cit.: XXVIII.
[11] -
ivi: XXVII.
[12] -
"Locke. . . concepì i rapporti di famiglia e di proprietà sul fondamento
non della legge civile, ma della legge di natura. Mentre il Grozio e l'Hobbes.
. . invocarono la natura per negare la possibilità di costruire su di essa un
qualsiasi ordinamento giuridico e, mediante il patto, crearono l'ordine civile
come ordine superiore di ragione contrapposto o sovrapposto all'ordine
originario di natura, dominato dagli istinti e dagli appetiti, il Locke nega,
almeno teoricamente, il dualismo tra ragione e senso, tra stato di natura e
stato civile: la natura è essa stessa ragione, o meglio va intesa e
interpretata razionalmente, per cui lo stato civile non sarebbe che lo stato
naturale alla luce di una sana e illuminata ragione." (G. Solari, La filosofia politica. II. Da Kant a Comte, Bari
1974: 252-3). Su Locke, cf. anche J.W. Yolton, John Locke, Il Mulino 1990.
[13] -
Quasi a calco di questa distinzione possiamo operarne un’altra. Conosciamo
storicamente due modi di tematizzare il moderno
concetto di persona, in entrambi i casi facendone momento essenziale di un
orientamento morale. Secondo il primo modo, la persona è depositaria di dignità
a prescindere dalla sua appartenenza al
gruppo sociale (che, ovviamente, può estendersi all’umanità tutta). Secondo
l’altro, invece, è proprio quell’appartenenza, che dota l’individuo di valore, elevandolo a persona. Rispetto a questa
problematica è utilissimo Hegel, il quale –per fare un solo esempio-, nei suoi Grundlinien
der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft in Grundrisse,
§. 25, così ironizza contro la prima concezione della persona in nome della
seconda: Il mèro io, che poggia astrattamente su se stesso, la pura certezza di
sé, distinta dalla verità.
[14] -
Anche J-B. Say usa il termine economia politica, intesa
come il modo atto a produrre, distribuire e consumare la ricchezza (Kremm,
5641: 22s). Anche Senior e J.
S. Mill usano <economia politica> (Kremm. 5641: 23).