Stefano Garroni

 

Note sulla problematica dialettica

 di Gramsci.

 

 

 “Ciò che più interessa e appassiona Gramsci è il problema della creazione di un nuovo Stato, dello Stato operaio, il problerma dell’egemonia della classe operaia nella società moderna e della funzione degli intellettuali e della cultura in questo nuovo Stato e in questa società.” (Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1952: XV; sott. mia, SG)[1]. Così l’editore descrive la problematica centrale di Gramsci.

Ma se così stanno le cose, mi pare indubbio che si ponga un problema: - posto che cultura e ideologia siano, in Gramsci, termini sostituibili l’un con l’altro (e qualche volta, questa è l’impressione che si ricava dalla lettura), non è chiaro se lo stesso Gramsci distingua esattamente la cultura, come portatrice di un valore/verità, dalla cultura, in quanto funzione del potere politico. Insomma, non è chiaro –per dir la stessa cosa in modo diverso- se, in Gramsci, l’intellettuale valga in quanto momento necessario dell’organizzazione del potere, ovvero in quanto responsabile di un’attività, che in ultima istanza ha l’obbligo della verità.[2]

Solo apparentemente, mi sembra, Gramsci supera l’impasse, quando sottolinea che, non per caso, un’ideologia ha o non ha successo o efficacia: insomma, che un’ideologia riesca o non riesca ad impossessarsi delle masse (dunque, a svolgere, sembra, il suo ruolo, pragmaticamente utile) è qualcosa che vien deciso non dall’arbitrio, ma sì dall’adeguatezza (o –se si vuole- corrispondenza) o meno dell’ideologia in questione ad una certa condizione storicamente data.

Ma così il dubbio iniziale non viene tolto, perché <adeguatezza ad una situazione storicamente data> è espressione ambigua, che può significare o che un’ideologia serve in un contesto storico dato (e, dunque, il termine <ideologia> avrebbe un senso pragmatico), oppure può significare che una certa ideologia o cultura sa descrivere adeguatamente una situazione storicamente data e ne sa cogliere il senso (in questo caso, è ovvio, l’ideologia o cultura sarebbe, al contrario del caso precedente, sottoposta al criterio valore/verità).[3]

Un pochino meglio vanno le cose, quando Gramsci scrive: “è certo che la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma più compiuta ed avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo storico, che nella teoria delle soprastrutture pone in linguaggio realistico e storicistico ciò che la filosofia tradizionale esprimeva in forma speculativa. La dimostrazione di questo assunto … avrebbe la più grande portata culturale, perché metterebbe fine ad una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura. Fa anzi meraviglia che il nesso tra l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano e l’affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie da parte della filosofia della prassi, perché le ideologie sono espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa, non sia stato mai affermato e svolto convenientemente.”[4]

E’ evidente che, qui, Gramsci si muove nel senso di togliere ogni equivoco circa il ‘pragmatismo’ della filosofia della prassi; perché, in effetti, egli tende piuttosto a ribadire che la riflessione di Marx ha le proprie radici in una prospettiva di pensiero toto coelo diversa, ovvero in quella della filosofia classica tedesca.

Senonché, ancora una volta, la pagina gramsciana è equivoca. E lo è per due ragioni: (i) perché ribadisce –ma ciò è storicamente quasi inevitabile- il misterioso tema del ‘rovesciamento materialistico’, che Marx avrebbe operato della dialettica hegeliana; (ii) perché definendo le ideologie (che, qui, hanno chiaramente il signifificato di culture) “espressioni della struttura”, sembra di nuovo non vincolarle al valore/verità e, dunque, reintrodurre il pragmatismo.

Un altro aspetto, assai significativo, dell’ambiguità che ci interessa, è costituito dal ruolo, che –per Gramsci- gioca la forma nel caratterizzare la filosofia, di contro al senso comune.

Chiarito che il senso comune è il deposito, non coerente e non sistematico, di fasi culturali diverse, Gramsci sottolinea che, proprio perciò, l’uomo di senso comune (l’uomo la cui coscienza è al livello del senso comune) è, contemporaneamente e non coscientemente, diversi uomini.[5] E’ per questo che il passaggio dalla ‘spontaneità’ alla coscienza, dall’inconsapevole senso comune all’assunzione cosciente di una cultura, per Gramsci, vale come un processo di unificazione o, meglio, di armonizzazione della personalità, per cui il soggetto passa dall’essere contemporaneamente tanti e diversi “uomini-massa”, all’essere, invece, un solo uomo-massa.[6]

Ciò sembra suggerire la possibilità di distinguere, più in generale, fra contenuti della coscienza, formalmente disgregati e contradditori –ma pragmaticamente utili (ideologia, religione, senso comune)-; ed altri contenuti di coscienza (filosofia, buon senso), ai quali corrisponde un oggetto determinato (dunque, si tratta di contenuti di coscienza, a cui è finalmente attribuibile un valore/verità), perché sono ordinati logicamente, perché son dotati di  forma sistematica. In altre parole Gramsci sembra interpretabile in questo modo.

La filosofia della prassi si colloca in continuità col soggettivismo moderno, in quanto ha acquisito una concezione dinamica del reale, il quale non può essere più concepito come un mondo già fatto, di cui la coscienza debba assicurare la riproduzione psichica. Al contrario, la filosofia della prassi riconosce come proprio oggetto il mondo dell’esperienza, ovvero, l’orizzonte della continua interazione fra soggetto, società e natura. Questo mondo dell’esperienza non è, fin dall’inizio, vero, ma lo diventa acquisendo determinazione e sistematicità di relazioni; il pensiero vero è, appunto, quello che partecipa, riproducendolo al proprio livello, a tale processo storico di continua costruzione della realtà. In questo senso, il pensiero vero si fa riconoscere proprio per le sue caratteristiche formali di determinazione e sistematicità.[7] Ma guardiamo meglio il rapporto senso comune/buon senso/filosofia, perché potremo ricavarne un motivo dialettico, già in Hegel centrale[8].

Nel senso comune –osserva Gramsci- c’è un lato sano, che consiste nella sollecitazione a superare l’immediatezza passionale, in nome di una comprensione razionale sia dello stato di cose sia di ciò che va fatto[9]; questo lato positivo, che potremmo chiamare buon senso, merita di esser sviluppato in modo sistematico[10].

Dunque, quella che sembrava essere una rigida opposizione (o filosofia o senso comune), in realtà, trova un momento di mediazione: il buon senso, infatti, è quella parte del senso comune, che è disponibile ad assumere una forma ordinata e sistematica, divenendo in questo modo compatibile con la filosofia, intesa, appunto, come cultura assunta consapevolmente e svolta sistematicamente; ma ciò implica, è evidente, che se nel passaggio dal senso comune alla filosofia c’è soluzione di continuità, rottura, mutamento radicale di piano, è anche vero tuttavia che quel passaggio in tanto è possibile, in quanto trova nello stesso senso comune una delle condizioni della sua possibilità. In altre parole, non è lecito contrapporre radicalmente ‘filosofia scientifica’ e ‘filosofia volgare’, coscienza sistematica e, invece, discontinua e ‘spontanea’, dacché esiste una mediazione fra i due livelli, offerta dal buon senso.

A questo punto, filosofo ed uomo ordinario, quadro politico e comune lavoratore, pur con tutte le loro differenze dal punto di vista della consapevolezza, si scopre che giacciono, anche, a dir così su una stessa retta, risultano momenti diversi di una stessa evoluzione: il buon senso li media e così li rende l’uno parte dell’altro, l’uno condizione di possibilità dell’altro

Dunque, la rigida opposizione di partenza (filosofia o senso comune) risulta, in Gramsci, dialetticamente tolta, perché mediata dal buon senso. Conseguentemente, il filosofo, l’avanguardia politica continuano, certo, a distinguersi, rispettivamente, dall’uomo comune e dal semplice lavoratore, ma –tutti- divengono impensabili senza l’altro; ognuno richiama il proprio ‘altro’, in quanto –tutti- momenti diversi, ma funzionali, di una stessa totalità, di uno stesso insieme.[11]

A questo punto, possiamo ben comprendere Gramsci quando scrive: “La funzione e il significato della dialettica possono essere concepiti in tutta la loro fondamentalità, solo se la filosofia della prassi è concepita come una filosofia integrale e originale, che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l’idealismo che il materialismo tradizionali, espressioni della vecchia società.”[12]

In altre parole, la dialettica non è una parte determinata della filosofia della prassi, ma –a dir così- è la totalità della sua <intensione>[13].

Dire filosofia della prassi (ovvero, sappiamo, pensiero di Marx) significa dire una certa attitudine[14] verso il mondo, che scioglie le <rigide cose> nella dinamicità delle relazioni (si ricordi la centralità in Marx della lotta contro l’estraneazione/Entfremdung, o la contrapposizione fra lavoro vivo e capitale o lavoro morto ed, infine, la sua concezione della categoria economica come cristallizzazione di rapporti sociali).

Proprio in quanto mezzo per smascherare la reificazione –la quale dà a rapporti e relazioni la forma di cosa (l’hegeliana Verdinglichung)-, la dialettica si rivela strumento per mettere in luce (ma anche per creare) la trama di interrelazioni, che è sottesa dal reale, pur quando si presenti, immediatamente,  fissato nella propria particolarità e, così, chiuso nel proprio isolamento.

La filosofia della prassi esattamente perché dialettica, può essere integrale storicismo, ovvero quella teoria, che mi consente di ‘togliere’ dal reale quanto sembra necessariamente costitutivo, ma gratuito, - determinante, ma arbitrario, dandomi, invece, di esso quella visione sistematica e interrelazionata, che mette in luce il senso (storico, appunto) dell’esistente –quale che sia la sua apparente gratuità e non questionabile casualità[15]. Senonchè, in questo testo di Gramsci troviamo anche qualcosa che non si giustifica.

Che la dialettica testimoni dell’attidudine, che abbiamo detto, è vero fin dai momenti più antichi della sua storia (ad es., si pensi all’analisi hegeliana dell’eleatismo greco o a Dialoghi platonici come Parmenide); ciò significa che non è qualcosa che specifichi il pensiero di Marx: dallo scetticismo antico alla moderna riflessione di Leibniz (per non parlare evidentemente di Kant e di Hegel), non c’è caratteristica dell’argomentare dialettico marxiano, che non trovi precisi antecedenti.

Dobbiamo riconoscere, insomma, che Gramsci sembra partecipare a quella certa retorica che, da un lato, vuol vedere in Marx la chiusura della tradizionale storia filosofica e l’apertura di una vicenda del tutto nuova (che sarà, poi, un tema importante della cultura marxista dell’epoca di Zhdanov e di Stalin) e che, probabilmente per giustificare questa pretesa di radicale originalità, lo stesso Gramsci non può sottrarsi dal riproporre il mito (ovviamente non spiegato, perché non interpretato) del cosiddetto rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana.

Ma ciò crea proprio a Gramsci una particolare difficoltà, in quanto egli è, invece, appieno consapevole che, se vale la prospettiva dialettica, non possono valere né l’unilateralità idealistica, né quella materialistica.

In effetti, collocare gramscianamente Marx entro il <soggettivismo moderno> è operazione non solo legittima, ma anche di grande opportunità, perché significa comprendere bene che dimensione fondamentale della dialettica è porre al centro dell’attenzione non un astratto mondo, ma sì l’esperienza (nel senso, che abbiamo già chiarito), la storia, fino al punto di affermare la storicità appunto (la trasformabilità di principio ed il mutamento di fatto) delle stesse strutture logiche.

E’ chiaro che in questa ottica sarebbe contraddittorio voler affermare una prospettiva dialettica idealistica oppure materialistica, perché significherebbe reintrodurre, nella continua dinamica di interrelazioni fra le dimensioni diverse dell'esperienza, l’unilaterale  primato di una di esse ai danni delle altre.

E Gramsci questo lo sa bene, come dimostra la sua attenzione al Manuale di Bucharin e la critica spietata –ma rigorosissima-, a cui lo sottopone;[16] ma come dimostra, anche, questo programma di lavoro, che Gramsci delinea: “occorre dimostrare che la concezione <soggettivistica>, dopo aver servito a criticare la filosofia della trascendenza da una parte e la metafisica ingenua del senso comune e del materialismo filosofico, può trovare il suo inveramento e la sua interpretazione storicistica solo nella concezione delle superstrutture mentre nella sua forma speculativa non è altro che un mero romanzo filosofico.” [17]

 

 

 

 

Bibliogafia.

 

A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1952.

V.I. Lenin, Opere XXXI, Roma 1967.

F. Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Laterza 1979.

F. Valentini. Soluzioni hegeliane, Napoli 2001.

E. Weil, Logique de la philosophie, Paris 1985.

 

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[1] - D’ora in avanti indicherò il testo col solo nome dell’A. e il numero della pagina.

[2] - Un’analoga incertezza va registrata, mi pare, a proposito del termine religione che, a volte, Gramsci sembra usare per significare un sapere che implica commitment/engagement; altre volte, invece, come analogo del  termine senso comune. Si ricordi che posto il nesso necessario tra religione e commitment, per molti (in particolare nell’ambiente culturale anglo-sassone), il marxismo è appunto una religione. “Il problema della religione –leggiamo in Gramsci: 5- inteso non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme: ma perché chiamare questa unità di fede religione e non chiamarla ideologia o addirittura politica?”

[3] - Gramsci: 18.

[4] - Gramsci: 139.

[5] - Può essere suggestivo richiamare il titolo del noto romanzo di Pirandello Uno, nessuno, centomila, stampato per la prima volta nel 1926, dunque, pochi anni prima della stesura di queste note gramsciane.

[6] - E’ in questo contesto problematico, che va letta l’affermazione di Gramsci, secondo cui “la filosofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune ed in tal senso coincide col <buon senso>, che si contrappone al senso comune.” (Gramsci: 5).

[7] - Per il rapporto filosofia/religione/senso comune, così ancora Gramsci: “La filosofia è un ordine intellettuale, ciò che non possono essere né la religione né il senso comune … nella realtà … (non) coincidono, ma la religione è un elemento del disgregato senso comune … La religione e il senso comune non possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non possono ridursi ad unità e coerenza liberamente, perché autoritariamente ciò potrebbe avvenire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti.” (Gramsci: 5).

[8] - All’interno della polemica contro il materialismo di Bucharin, così osserva Gramsci: 142 – “La formulazione di Engels che <l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata … dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali> contiene … il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre <umanamente oggettivo>, ciò che può corrispondere esattamente a <storicamente soggettivo>, cioè oggettivo significherebbe <universale soggettivo>. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni che dilaniano la società umana …”

[9] - E’ questo, per Gramsci: 7, il senso dell’espressione comune <prender le cose con filosofia>.

[10] - Si noti, ancora una volta, la centralità del tema forma.

[11] - E’ interessante che questo motivo gioca un ruolo centrale nell’argomentazione, che Lenin svolge nel suo L’estremismo, malattia infantile del comunismo, in Opere, vol. XXXI (ed. it.).

[12] - Gramsci: 132.

[13] - Non possiamo qui approfondire il tema, ma quanto Gramsci sta dicendo a proposito di dialettica e filosofia della prassi vale anche per filosofia hegeliana e dialettica. Ed anche la conclusione è la stessa: così come per Marx, anche per Hegel la dialettica non è una parte separabile dal sistema. Il che toglie senso a ciò, che la tradizione indica con rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana.

[14] - Per il concetto di attitude in relazione alla dialettica, rimando ovviamente a E. Weil, Logique de la philosophie, Paris 1985 ed a F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Napoli 2001.

[15] - “… la mentalità di Gramsci, pervasa di senso storico, ossia tale da considerare il corso storico come una sorta di vivente razionalità e quindi come avente in sé la sua misura (in sé e non, per esempio, in uno schema di tipo evoluzionistico), mentalità fortemente politica, convinta che la politica è la tragedia moderna e che è fatua ogni pretesa di “mettere le brache al mondo”, neppure, come si è ora visto, brache marxiste. Gramsci infatti considerava il marxismo non tanto come materialismo storico o come teoria del valore, ma essenzialmente come una interpretazione della storia moderna che mostra l'attualità appunto “storica” della dittatura del proletariato.” (F. Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Laterza 1979: 397).

[16] - Cf. “Note critiche su un tentativo di Saggio popolare di sociologia”, in Gramsci: 117ss. Com’è noto, Gramsci considerava il ‘materialismo storico’ (di Bucharin, ma direi  anche della precedente II Internazionale) eminentemente frutto dell’influenza sui marxisti della Storia del materialismo di F. Lange, apparsa nel 1873.

[17] - Gramsci: 141.